TORINO – E’ presto ed è una mattinata fredda. Tuttavia il Sole, anche lui assonnato quanto me, sembra dirmi che durante la giornata vorrà farsi sentire, ed io ho piacere di ascoltarlo. Così mi avvicino alla fermata del bus osservando lontane le Alpi leggermente innevate. Torino offre una vista meravigliosa. Oggi mi dirigo verso il Campus Luigi Einaudi, dove incontrerò il professor Roberto Burlando, insegnante di diversi corsi tra i quali “Economia ed etica” e “Finanza etica e microcredito”.
Ci incontriamo nel suo ufficio, appena conclusa l’ora di ricevimento. Iniziamo, così, una piacevole chiacchierata.
Professor Burlando, innanzitutto grazie del tempo che ci ha donato per quest’incontro.
Lei insegna, tra le diverse materie, “Finanza Etica e Microcredito”. Mi viene subito una domanda. La necessità di mettere l’aggettivo etica vicino al nome finanza, significa che di per sé la finanza non lo è?
“Io credo francamente di no. La finanza normale è tutt’altro che etica, sembra abbastanza evidente. Sembra evidente che la finanza tradizionale è ormai, principalmente, speculazione. Dal mio punto di vista la speculazione è tutt’altro che etica. Poi vi sono teorie che dicono che la speculazione fa funzionare meglio i mercati; io francamente non ci credo e credo che sia un modo di rubare essenzialmente soldi alle persone favorendo una redistribuzione del reddito che, come si vede negli ultimi decenni, è diventata sempre più ineguale.”
Che cos’è l’economia solidale?
“L’economia solidale si caratterizza proprio per il fatto che pone l’accento sul non cercare di avvantaggiarsi nei confronti degli altri, ma di collaborare insieme. La possibilità di lavorare e di produrre delle cose a vantaggio di tutti anziché utilizzare di nuovo quella logica, valida anche per la finanza, dell’utilizzare degli strumenti economici e contrattuali per fare più soldi facendo perdere soldi agli altri e/o sfruttandoli.”
Secondo lei a che punto siamo, complessivamente?
“E’ chiaro che l’economia solidale è una piccolissima nicchia, che non ha nemmeno una grande chiarezza teorica al momento. L’economia mondiale è predominata da grosse imprese che hanno un forte potere di mercato e quindi sono in grado di imporre i propri prodotti, le proprie scelte, la propria logica al resto del mondo. Tuttavia ci sono ambiti nei quali pezzi di economia si muovono in un modo un po’ diverso, e qualcuno sta cercando di farli crescere; ma certo è come dire Davide contro Golia.”
E quindi rispetto al momento attuale, secondo lei, da qui a cinquant’anni cosa succederà sia a livello economico che sociale? Quanto potrà reggere il sistema così come è ancora oggi?
“Io vedo che questo sistema economico è sostanzialmente insostenibile, non soltanto da un punto di vista ecologico, ma anche da un punto di vista sociale. La redistribuzione del reddito e della ricchezza attuale a favore di pochi sta causando, come è evidente, problemi, sofferenze e instabilità sociale. La quantità di giovani che non hanno una retribuzione sufficiente è in constante aumento. Questo crea problemi a tanta parte di popolazione, ma crea anche dei problemi di bilanci pubblici. Quindi abbiamo delle insostenibilità che sono personali, sociali ed economiche di cui troppo poco ci si preoccupa. Il Job Act, per esempio, oltre ai danni che sta facendo nei confronti di una serie di persone e qualche piccolo merito rispetto alla situazione precedente, crea dei buchi di bilancio in prospettiva estremamente significativi. Se gli imprenditori assumono perché non pagano contributi sociali, quel buco ricadrà sul futuro dei contribuenti. Tutto questo implica che o si cambia modello, o per imporre questo tipo di modello ancora, bisognerà passare a regimi politici sempre più autoritari che utilizzeranno la forza per imporre soluzioni che altrimenti sarebbero inaccettabili. I danni ambientali, tra l’altro, su questo giocheranno un ruolo significativo perché le previsioni anche degli economisti mainstream sono di danni crescenti con effetti anche sulla produzione aggregata sempre più pesanti; quindi: austerità più crisi ambientale più crisi sociale, ce né quanto basta.”
Cosa ne pensa della sharing economy? Va nella direzione dell’economia solidale o è più simile all’economia tradizionale semplicemente mascherata grazie allo sviluppo delle tecnologie?
“La sharing economy può significare tante cose diverse. La sensazione è che non si ponga per il momento il problema di incidere sui meccanismi centrali di funzionamento di questo sistema economico. Sharing vuol dire condividere; una economia di condivisione, certamente, entrerebbe in conflitto con il modello prevalente se dovesse svilupparsi in modo significativo. Tutto questo va bene ma secondo me non basta, salvo che non ci sia un salto di qualità a incidere sui meccanismi effettivi. E’ uno strumento che può certamente servire concretamente in situazioni relativamente piccole, come l’economia solidale.”
In Italia da anni in cui siamo in una situazione di crescita zero. Ogni anno ci dicono che, forse, il prossimo anno torneremo a crescere. E’ ancora possibile che questa economia cresca o siamo giunti in un punto stazionario di non ritorno?
“Credo che qui bisognerebbe fare tutta una serie di precisazioni. La crescita di che cosa? Perché la crescita della produzione materiale sta andando in contro a limiti fisici che sono certamente stringenti; non nello stretto immediato in termini assoluti ma in termini relativi crescenti, non c’è dubbio. Due anni fa abbiamo organizzato un convegno al Politecnico sui limiti allo sviluppo, non alla crescita. Il famoso libro del Club di Roma del 1972 era intitolato in inglese “I limiti dello sviluppo”. Abbiamo problemi di rendimenti che, come spiegano una serie di studiosi, stanno diventando sempre più vincolanti. C’è la possibilità di muoverci verso un nuovo modello di sviluppo, questo è un dato fondamentale. Non puntare più sulla crescita materiale, di quantità di beni fisici prodotti, ma sulla qualità di servizi e di produzioni. Tra l’altro abbiamo una quantità di produzioni di beni materiali che sono di infima qualità e sono anche dannose, per cui limitarle, presumibilmente, potrebbe migliorare le condizioni di vita e non peggiorarle. In ogni caso abbiamo un problema di redistribuzione delle risorse che è assolutamente fondamentale.”
La nostra redazione si chiama Italia Che Cambia, quindi che cos’è per lei il cambiamento e come lo declina nella sua vita?
“Il cambiamento è una caratteristica tipica delle società umane. Uno degli aspetti che ultimamente emerge dalle analisi è proprio l’imprevedibilità del cambiamento. La nostra scarsa capacità di prevedere i mutamenti. Più un sistema è complesso, più difficile è ipotizzare in quale direzione andrà. Possiamo vedere alcune grandi linee, ma poi ci sono una serie di elementi che sono difficilmente prevedibili e rimanere aperti alle possibilità di cambiamento che si danno è fondamentale. Tendenzialmente mi sembra che l’economia più tradizionale punti ad una concezione del cambiamento che è essenzialmente di tipo tecnologico. Credo che questo sia importante ma non penso sia questa la chiave che risolverà i nostri problemi. Usare il progresso tecnologico per migliorare alcune cose va benissimo, ma per il momento le uniche possibilità di sfuggire ai limiti di cui dicevo prima, sociali e ecologici, sono: colonizzare altri pianeti, le nanotecnologie, e l’idea di mondi paralleli. Nessuna di queste possibilità sembra possa essere seriamente percorribile nei prossimi decenni. Se questo non è, il cambiamento ha da essere di natura diversa. Non tanto tecnologico, quanto piuttosto sociale, politico e culturale.”
Infine le va di raccontarci di cosa si sta occupando ultimamente, in particolare sul libro che sta scrivendo?
“Una delle mie passioni è l’economia gandhiana, che quindi si rifa attraverso il pensiero di Gandhi, a una sintesi tra le radici etiche cristiane e indiane, dello yoga in particolare. E’ interessante perché nel confronto tra questi due paradigmi filosofici ed etici, si evidenziano gli aspetti più interessanti e ricchi di queste due tradizioni che a volte, prese separatamente, si perdono un po’ in una serie di dettagli e discussioni interne. Il confronto è invece li fa emergere in modo più netto. Gli aspetti centrali della riflessione gandhiana in economia sono quelli che evidenziano, per l’appunto, i limiti della concezione tradizionale da un punto di vista etico e quindi l’utilitarismo che predomina nelle concezioni economiche attuali. Abbiamo bisogno di riflessioni che si ispirino all’accettazione di un principio deontologico: esistono delle cose che sono giuste e delle cose che sono sbagliate. Poi quelle giuste è difficile definirle in modo univoco, abbiamo una dimensione di pluralismo. Attenzione che il pluralismo è l’opposto del relativismo, perché il pluralismo riconosce un fondamento comune che Kant identificava nell’idea che dobbiamo sempre considerare gli altri anche come fini in se stessi e non solo come strumenti. Invece l’utilitarismo, in particolare quello degli economisti, questa parte se l’è chiaramente dimenticata. L’etica della virtù aristotelica ci da una riflessione su quello che è l’obiettivo fondamentale per una società: aumentare la libertà personale nel rispetto degli altri, migliorando le capacità di ciascuno di realizzarsi. L’economia gandhiana mette in evidenza anche il livello di interconnessione tra i soggetti. Dal punto di vista metodologico si pone in netta contrapposizione con l’individualismo che caratterizza l’economia neoclassica, predominante attualmente. Inoltre essa si sofferma sulla rilevanza degli individui, sia sulle forme di interazioni tra essi. Vi sono poi le concezioni antropologica e psicologica. Nell’economia tradizionale l’idea è che gli individui sono egoisti che massimizzano la propria utilità, per cui sembra che l’obiettivo fondamentale della vita sia quello di possedere un po’ più beni di consumo. Credo che la maggior parte delle persone non si riconosca in questo. Avere beni di consumo è sicuramente una cosa importante ma certamente sono anche importanti le relazioni umane. Se queste sono subordinate al raggiungimento di fini altri, allora la loro stessa natura si riduce. Il classico esempio è quello dell’amicizia e dell’amore. Se uno li compra sul mercato non sono né amicizia né amore, nel senso in cui normalmente si intendono, sono qualche cosa di diverso di cui non ci si fida allo stesso modo, tanto che li chiamiamo tendenzialmente con termini diversi e certamente meno positivi.”
Ringrazio il Professor Burlando per la piacevole chiacchierata fatta e per gli interessanti spunti di riflessioni che essa ha generato.
Il mondo accademico si deve interrogare su queste tematiche e cercare di interagire con le istituzioni. La linfa dei giovani universitari può essere la chiave per evitare che forme di potere in campo economico e politico diventino sempre più stringenti e si impadroniscano di noi stessi e delle nostre libertà.
Articolo riproducibile citando la fonte con link al testo originale pubblicato su Italia che Cambia