Da più di vent’anni impegnata ad aiutare, reinserire, solidarizzare e creare relazioni con chi vive un grave disagio sociale e in situazione di completa esclusione sociale
TORINO – Sono in totale ritardo, avevo appuntamento con Patrizia, volontaria dell’associazione Opportunanda, alle 18. Pensando di arrivare più velocemente, decido di prendere l’auto. Pessima idea, traffico impazzito e nessun posto nella zona. Decido così di parcheggiare a qualche chilometro di distanza dal luogo di incontro e da lì prendo una bicicletta del bikesharing di Torino per raggiungere la meta.
Siamo nel cuore di San Salvario, ed è proprio l’orario dell’aperitivo. Ovunque ragazze e ragazzi si rilassano assaporando uno spritz o una birra nei tanti e piccoli locali del quartiere torinese più in voga degli ultimi anni per la vita notturna. Mi chiedo se mi trovo nel luogo corretto. Osservo una porticina, all’interno del quale non mi sarei mai aspettato di osservare una scena emotivamente tanto forte.
Entro in una stanza e Patrizia, insieme ad un nutrito numero di volontari, stava già servendo la cena. Attorno ai tavoli circa una cinquantina di persone. “Di solito siamo molti di più”, mi dice velocemente mentre passa a portare le pietanze agli ospiti.
Tra i commensali anche i miei zii, amici dell’associazione, che insieme ai responsabili dell’associazione mi spiegano tutto sulla loro attività. Ideatori e creatori del movimento sono Carlo e Gabriella, presenti anche quest’oggi e impegnati, come al solito, nella gestione della cena. Noto che Almerino, autorevole rappresentante di Opportunanda, ha piacere di condividere la sua esperienza e quella di tutto il gruppo. “Il nostro impegno è il sostegno, il reinserimento, la solidarietà e l’amicizia con persone che vivono un grave disagio sociale e in situazione di completa esclusione sociale, in particolare senza dimora”.
Osservo attorno a me tante persone della strada che si ritrovano assieme per mangiare condividendo momenti, emozioni, pensieri per costruire insieme un futuro diverso. Alzo lo sguardo e mi incuriosisce la frase di Lao Tze impressa vicino al logo dell’associazione: “Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.
Mi inserisco nuovamente nella conversazione, dove Almerino continuava a raccontare delle attività all’interno del centro. E’ un piacere ascoltarlo. Si organizzano corsi di canto, teatro, creatività artistica per unire e socializzare, “per esprimere la vena artistica presente in ognuno di noi e uscire così dall’isolamento”.
L’associazione gestisce anche quattro alloggi, uno femminile e tre maschili, anche per chi è appena uscito dal carcere o è in attesa della casa popolare. In ogni appartamento risiedono più persone. “I rapporti tra le donne sono tendenzialmente più difficili”, ammette.
Passiamo a parlare della questione economica. Non è semplice per una realtà del genere trovare un equilibrio finanziario, tuttavia l’associazione prosegue con determinazione la sua attività con tre dipendenti part-time, due operatori del servizio civile e un team di volontari. La sostenibilità è assicurata al momento anche da donazioni di privati che, dato l’importante lavoro riconosciuto nel tempo a Opportunanda, hanno deciso di donare dei fondi alla causa.
Gli chiedo da dove proviene il cibo che ci è stato servito e mi stupisce osservare gli imballaggi dei prodotti che abbiamo consumato. Almerino mi mostra infatti il magazzino dove assiepano tutti gli alimentari che quotidianamente vengono controllati e organizzati dall’associazione. Molti di essi sono comprati dall’Unione Europea alle aziende per far sì che esse possano continuare a produrre le merci senza diminuirne la produzione. Così, successivamente, l’Unione Europea gira questi beni agli enti sparsi nella comunità che lavorano per aiutare persone in difficoltà. C’è un qualcosa di perverso in questo meccanismo, che tuttavia permette a realtà come Opportunanda di reperire il cibo necessario.
Di certo non c’è nulla di perverso nella lodevole associazione Opportunanda, che genera solo speranza nel futuro e in un mondo migliore.
Mi sorprende il fatto che all’uscita molti dei partecipanti alla cena chiedono ai responsabili se possono portarsi via la bottiglia di aranciata, di tè o del succo di frutta lasciata a metà durante la cena. Rabbrividisco pensando alla notte che l’aspetta in strada nel centro di Torino.
I migliori auguri vanno a tutti gli operatori di questa meravigliosa realtà. Andate a trovarli una volta che siete a Torino, non ve ne pentirete.
Articolo riproducibile citando la fonte con link al testo originale pubblicato su Italia che Cambia